Psicologia Sociale

L’Esperimento della Prigione di Stanford

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Il 23 marzo del 1933 nasceva Philip G. Zimbardo, noto per il suo controverso esperimento chiamato “Stanford Prison Experiment”.  Da cui più tardi nascerà anche il libro:” Lucifer Effect”, in cui viene descritto il momento in cui una persona normale, attraversa il confine tra il bene e il male. Presenta una trasformazione del carattere umano, che l’autore ritiene più probabile in nuove  “situazioni sociali”, in cui le forze situazionali sociali sono sufficientemente potenti da riuscire a sopraffare, o a sopprimere temporaneamente, attributi personali di moralità, di compassione, o senso di giustizia.

Il male è l’esercizio del potere di nuocere intenzionalmente (psicologicamente), di procurare dolore (fisicamente), o distruggere (mortalmente o spiritualmente) altri.

Nel 1971, lo psicologo Philip Zimbardo e i suoi colleghi hanno cercato in un esperimento di approfondire l’impatto delle variabili situazionali sul comportamento umano.

Cosa succede se si mette della brava gente in un posto “cattivo”? Riuscirà il bene a vincere sul male o, piuttosto, trionferà il male?

I ricercatori hanno creato una prigione finta nel seminterrato dell’edificio psicologia della Standford University, e selezionato 24 studenti universitari per svolgere i ruoli di detenuti e guardie. I partecipanti sono stati selezionati da un gruppo più ampio di 70 volontari, tutti i candidati vennero intervistati e sottoposti ad una batteria di test di personalità al fine di eliminare quelli con problemi psicologici, malattie o precedenti criminali e/o di abuso di droghe. I volontari hanno deciso di partecipare per un periodo da uno a due settimane in cambio di 15 dollari al giorno.
Ogni cella ospitava tre prigionieri e comprendeva tre lettini. Altre camere sono state utilizzate per le guardie carcerarie. Uno spazio molto piccolo è stato designato come la camera di isolamento “il buco”, e ancora un’altra piccola stanza serviva da cortile della prigione.
I 24 volontari furono divisi in maniera arbitraria (mediante il lancio di una moneta) in due gruppi: metà guardie e metà prigionieri. E’ importante sottolineare che all’inizio dell’esperimento non c’era alcuna differenza tra loro. I prigionieri dovevano rimanere nel carcere finto 24 ore al giorno per tutta la durata dello studio. Alle guardie, invece, sono stati assegnati turni di otto ore, e lavoravano a gruppi di tre uomini. Dopo ogni turno, le guardie erano autorizzate a tornare alle loro case fino al loro prossimo turno. I ricercatori osservavano il comportamento dei prigionieri e guardie con telecamere nascoste e microfoni.

L’esperimento doveva durare 14 giorni, fu interrotto dopo appena sei. Dopo due giorni i primi episodi di violenza: i detenuti si strapparono le divise di dosso e si barricarono all’interno delle celle inveendo contro le guardie; queste iniziarono a intimidirli e umiliarli, li costrinsero a cantare canzoni oscene, a defecare in secchi che non potevano vuotare. Al quinto giorno i prigionieri mostrarono sintomi evidenti di disgregazione individuale e collettiva: il loro comportamento era docile e passivo, il loro rapporto con la realtà appariva compromesso da seri disturbi emotivi, mentre per contro le guardie continuavano a comportarsi in modo vessatorio e sadico. A questo punto i ricercatori interruppero l’esperimento suscitando da un lato la soddisfazione dei carcerati e dall’altro un certo disappunto da parte delle guardie.
C’erano tre tipologie di guardie. Le prime erano quelle, severe ma corrette, che seguivano scrupolosamente le regole della prigione. Le seconde erano rappresentate dai cosiddetti “bravi ragazzi”, da quelli cioè che concedevano pochi favori ma che al tempo stesso non punivano mai i prigionieri. Infine, un terzo delle guardie era costituito da coloro i quali si mostravano ostili, autoritari e “fantasiosi” nella scelta delle forme di umiliazione da infliggere ai prigionieri.

Sembrava che godessero appieno del potere loro concesso, sebbene nessuno dei test di personalità precedentemente somministrati fosse stato in grado di predire un tale atteggiamento. I prigionieri reagirono in vari modi al loro senso di frustrazione e impotenza. All’inizio, alcuni si ribellarono lottando contro le guardie. Quattro prigionieri ebbero delle crisi emotive come modalità di fuga dalla situazione. Un altro sviluppò in tutto il corpo una eruzione cutanea di origine psicosomatica quando seppe che la sua richiesta di rilascio era stata bocciata. Altri ancora provarono a fronteggiare il tutto comportandosi da prigionieri modello, obbedendo sempre alle richieste delle guardie. Uno di loro venne addirittura soprannominato “Sarge” per la sua maniera militare di eseguire gli ordini.
A fine studio, i prigionieri erano a pezzi, sia come gruppo sia a livello individuale. Non c’era più alcuna unità ma solo un mucchio di individui somiglianti a prigionieri di guerra o pazienti di un ospedale psichiatrico. Le guardie avevano il controllo totale della situazione e potevano contare sulla cieca obbedienza di ciascun prigioniero.

“Solo poche persone erano in grado di resistere alla tentazione di cedere al potere e dominio", scrisse Zimbardo nel suo libro L’effetto Lucifero.

L’esperimento è stato ampiamente criticato, perchè non etico, non riesce a soddisfare gli standard stabiliti da numerosi codici etici, tra cui il Codice Etico dell'American Psychological Association, e dunque anche non replicabile. Poco generalizzabile, ad esempio da un punto di vista di genere, manca inoltre di una validità ecologica. Anche se i ricercatori hanno fatto del loro meglio per ricreare un ambiente carcerario, non è possibile imitare perfettamente tutte le variabili ambientali e situazionali della vita carceraria.
Nonostante alcune critiche, rimane un importante studio nella comprensione di come la situazione possa influenzare il comportamento umano. Molte persone, tra cui lo stesso Zimbardo, suggeriscono che gli abusi di Abu Ghraib potrebbero essere esempi reali degli stessi risultati osservati nell’esperimento di Stanford.

Fonte: http://www.prisonexp.org/
Haney, C., Banks, W. C., & Zimbardo, P. G. (1973) A study of prisoners and guards in a simulated prison. Naval Research Review, 30, 4-17.

Psicologia del Male

Ho conosciuto Piero Bocchiaro dopo aver letto il suo libro Psicologia del male (Laterza, 2009). Il libro, che ha una prefazione del celeberrimo Phil Zimbardo, lo psicologo sociale che ideò gli esperimenti della prigione di Stanford, ha il merito di raccontare, con un linguaggio semplice e alla portata del grande pubblico, alcuni esperimenti ormai definiti classici della psicologia sociale. Esperimenti che, in questi ultimi anni, a partire dai fatti della prigione di Gauntanamo post 11 settembre, passando per gli abusi di Abu Ghraib, sono tornati prepotentemente alla ribalta per la diversa realtà che ci raccontano su questi ed altri fatti di cronaca. Eccovi il nostro dialogo.

Si pensa comunemente che chi compie il male sia una persona cattiva o mentalmente deviata. Ma stanno così le cose? Sono davvero dei mostri questi individui?

La concezione predominante nella nostra cultura è che le azioni crudeli siano l’esito della personalità o del patrimonio genetico di chi le compie; seguendo questa logica, se vogliamo comprendere le ragioni di simili condotte dovremo necessariamente scavare all’interno di questi individui. La popolarità di tale idea è legata ai benefici che ne derivano sia per il sistema, che così viene alleggerito dalla responsabilità di aver creato i presupposti all’attuazione del male, sia per chi non ha ancora agito in maniera cattiva, che così può continuare a credere di essere diverso da quegli altri. In “Psicologia del male” metto in discussione proprio questa tesi, sostituendola con una visione in cui chiunque, in determinate circostanze, può infierire contro un altro uomo. Sembra che quando noi esseri umani ci ritroviamo in contesti insoliti ed estremi diventiamo particolarmente vulnerabili al potere delle forze presenti nella situazione, al punto che tali forze prendono il sopravvento orientandoci verso condotte di segno negativo, inimmaginabili sulla base delle abituali caratteristiche di personalità. All’interno di ciascun individuo esiste dunque un potenziale di crudeltà – in qualche caso anche abbondante – che aspetta di emergere non appena si presenta l’occasione giusta.

Per alcuni potrebbe essere una prospettiva difficile da accettare

Può darsi, ma è sostenuta dai dati di numerose ricerche di psicologia condotte in laboratorio e sul campo a partire dagli anni Sessanta. Questi studi ci aiutano a comprendere sotto una luce nuova fatti di cronaca attuali (pestaggi, stupri di gruppo o scene di indifferenza) ma anche episodi drammatici del passato (nel libro mi occupo, tra gli altri, della tragedia dell’Heysel e delle torture perpetrate nel carcere di Abu Ghraib). Anziché esplorare soltanto l’interno dei protagonisti, la mia analisi si rivolge prevalentemente all’esterno e dunque ai vari fattori psicosociali che predispongono al male.

Nel libro emerge un parallelismo proprio tra questi fatti di cronaca e i risultati di quattro esperimenti classici di psicologia

Sì. Gli esperimenti di cui mi occupo sono quello di Milgram sull’obbedienza all’autorità, quello di Darley e Latané sulla diffusione della responsabilità e due studi di Zimbardo, rispettivamente sulla deindividuazione e sulla prigione di Stanford (a quest’ultimo si è ispirato il film “The Experiment”). Li racconto sostituendo il linguaggio scientifico, spesso noioso, con quello narrativo, così che quanto successo in laboratorio possa arrivare in modo chiaro anche ai non esperti. Ciascuno dei quattro esperimenti fa vacillare l’immagine di un uomo assertivo e in grado di affrancarsi da tutto, lasciando emergere una figura pesantemente plasmata da molteplici fattori esterni.

Philip Zimbardo firma peraltro la prefazione a “Psicologia del male”

Per me è stato un bel regalo, questo. Nessuno meglio di lui avrebbe potuto introdurre il libro. Ci conosciamo e collaboriamo da diversi anni e attualmente stiamo lavorando a un progetto di ricerca il cui obiettivo è comprendere in laboratorio cosa spinge una minoranza di persone a disobbedire agli ordini ingiusti di una figura autoritaria. Chi sono questi individui? E perché decidono di rischiare pur di affermare un ideale? I dati che stiamo raccogliendo già da mesi sembrano indicare, ancora una volta, il grosso peso del contesto immediato nel guidare la condotta messa in atto dalle persone. Stavolta si tratta però di una condotta sana.

Tornando al libro, la tesi “situazionista” non rischia di essere scambiata per giustificazionismo?

È una domanda che mi permette di chiarire un punto importante. È sicuramente vero che le dinamiche situazionali possono orientare e predisporre al male, ma rimane il fatto che una condotta riprovevole è stata messa in atto da qualcuno e che condannarla è doveroso. Nella spiegazione non si nasconde nessun intento giustificazionista o assolutorio, ma solo l’esigenza di comprendere quanto succede, con la speranza aggiuntiva che si possa riflettere su un punto: sapere che siamo tutti esposti al potere della situazione dovrebbe renderci più vigili nei confronti delle varie forze psicosociali che nostro malgrado ci investono, e accrescere, come conseguenza, le probabilità di contrastarle.

Scritto da Alessandro Lombardo | 9 Feb 2013

Piero Bocchiaro (Palermo, 1972) è research fellow alla Vrije Universiteit di Amsterdam. Autore di articoli scientifici e del volume “Introduzione alla psicologia sociale” (con S. Boca e C. Scaffidi Abbate, Bologna 2003), ha insegnato all’Università di Palermo e trascorso periodi di formazione e ricerca alla Stanford University.

Tra gli ultimi articoli ricordiamo la sezione, curata da BocchiaroCianciabella e Zimbardo, su Psicologia Contemporanea (Ed. Giunti - Firenze - Anno 2020) dedicata agli studi del prof. Zimbardo.