Parliamo di disobbedienza con...

"Fra gli studiosi dell’opera artistica di Antonio, nel corso dell’ultimo mezzo secolo, è prevalsa, come meritevole del massimo apprezzamento, la figura di Totò che impersona la ribellione permanente contro il potere, come un precursore anziano della giovanile contestazione sessantottina, e un campione della disobbedienza antiautoritaria"

dal libro: Caporali tanti, uomini pochissimi. La storia secondo Totò

di Emilio Gentile

«Fermi davanti a gabbie di vetro, leggermente inclinati in avanti, quasi nel tentativo di evitare riflessi che potrebbero impedire una corretta visione di ciò che è al di là del vetro. La mente percorsa da pensieri che stentano a trovare un equilibrio cognitivo. Parole appena bisbigliate, se non soffocate in gola. Che cosa significa agire? Compiere il "male"? Che cosa significa essere responsabili? Accondiscendere e dire di sì, opporsi e dire di no? Probabilmente nessuno avrebbe mai immaginato che l'umanità si sarebbe raccolta dinanzi a gabbie di vetro per riflettere sul senso dell'azione» (A. Zamperini).
È il 1962. In Israele si sta celebrando il processo ad Adolf Eichmann, il famigerato «trasportatore di morte». Il mondo intero s'interroga sulla «banalità del male», incredulo di fronte all'idea che le persone crudeli non siano mostri informi, ma uomini comuni. La stessa ordinarietà dei cittadini nordamericani che Stanley Milgram, psicologo sociale «irriverente» e anticonformista, recluta in quegli anni per il suo celebre esperimento sull'obbedienza all'autorità. 
Individui qualsiasi, convocati in laboratorio per obbedire a ordini che offendono il loro senso morale e studiati nella loro propensione alla sudditanza o alla ribellione. Desacralizzando la coscienza quanto l'autonomia morale, e constatandone la docile inefficacia quale baluardo contro l'azione immorale e malvagia, il saggio di Milgram, ormai un classico imprescindibile della psicologia, dischiude scenari inquietanti e attualissimi. Quelli di un mondo colonizzato da una «burocrazia della mente» che, una volta anestetizzato nello svolgimento del proprio compito il giudizio su ciò che è bene e ciò che è male, rende pericolosamente fluttuante e labile la responsabilità soggettiva.

Che cos'è il male oggi? In che modo si può dire che le sue manifestazioni, le sue spinte, le sue modalità di aggredire il tessuto del mondo e delle persone che lo abitano si siano modificate? Zygmunt Bauman, uno dei più grandi pensatori viventi, già nel 1989, con "Modernità e olocausto", aveva riletto le atrocità del Terzo Reich sovvertendo l'opinione comune che si fosse trattato di un "incidente" della Storia e dimostrando che invece la "società dei giardinieri" illuministi (bene attenti a estirpare le "erbacce") aveva raggiunto con l'olocausto il suo risultato più esemplare. In questo libro Bauman compie un ulteriore decisivo passo avanti nell'identificazione del "male" ai giorni nostri. E lo fa con una ricognizione delle tesi fallaci che si erano affermate nel Novecento (dalla "personalità autoritaria" di Adorno alla "banalità del male" di Hannah Arendt) per mostrare poi, in un corpo a corpo con le opere di Jonathan Littell e di Günther Anders, che la presa di distanza dagli esiti dei nostri atti distruttivi (resa non solo possibile, ma obbligata, dalle mirabilia tecnologiche e dalla costrizione "diversamente morale" a non sprecare armi la cui produzione ha richiesto quantità esorbitanti di denaro) contribuisce a erodere la nostra sensibilità già gravemente indebolita, malcerta, afona. - See more at: http://www.librierecensioni.com/libri3/le-sorgenti-del-male-zygmunt-bauman.html#sthash.jneFVqiN.dpuf

All'alba del 13 luglio 1942, gli uomini del Battaglione 101 della Riserva di Polizia tedesca entrarono nel villaggio polacco di Jozefow. Al tramonto, avevano rastrellato 1800 ebrei: ne selezionarono poche centinaia come "lavoratori" da deportare, gli altri, che fossero donne, vecchi o bambini, li uccisero. Ordinaria crudeltà, si direbbe; ma gli uomini del Battaglione 101 erano operai, impiegati, commercianti, artigiani arruolati da poco. Uomini comuni, reclutati per estrema necessità, che non erano nazisti né fascisti né fanatici antisemiti, e che ciò nonostante sterminarono 1500 vittime in un solo giorno. E il massacro di Jozefow non fu che il primo di una lunga serie: in poco più di un anno, il Battaglione 101 uccise altre 38000 persone e collaborò alla deportazione a Treblinka e allo sterminio di oltre 45000 ebrei.
Alla fine della guerra, rimasero 210 testimonianze di membri del Battaglione 101: cosa pensavano, mentre partecipavano alla «soluzione finale»? Come giustificavano il prorpio comportamento? E soprattutto, per quale motivo furono così spietatamente efficienti nell'eseguire gli ordini? Per fede nell'autorità, per paura della punizione? La spiegazione data da Christopher Browning è molto più sorprendente e angosciante: un uomo comune può diventare uno spietato assassino per puro spirito di emulazione e desiderio di carriera. Ovvero: i sentimenti più banali e apparentemente innocui sono i motori della più estrema inumanità. Ieri e oggi.

L'espressione «tendenze antidemocratiche» è stata coniata ne La personalità autoritaria(1950), l'opera, diretta da Th. W. Adorno, che segna l'inizio di un ampio filone di ricerche sulle radici psicologiche del fascismo. Dopo trent'anni di grande fermento teorico-empirico, il numero degli studi sul tema ha preso a diminuire, in funzione dell'attenuarsi dell'angoscia e dell'orrore destati dal fascismo e dal nazismo. Tuttavia, la montante diffusione dei partiti di estrema destra, dei movimenti xenofobi e degli atteggiamenti razzisti, assieme alla disponibilità di nuovi approcci capaci di superare molti limiti del lavoro di Adorno e delle ricerche successive, sta riportando prepotentemente le tendenze antidemocratiche all'attenzione della comunità scientifica.
Il saggio di Michele Roccato presenta criticamente l'evoluzione del dibattito teorico-metodologico ad esse dedicato, facendo speciale riferimento a tre questioni: la natura delle minacce psicologiche alla democrazia, la loro localizzazione sull'asse destra-sinistra e i metodi piú utili alla loro rilevazione empirica. Il volume si articola in tre parti. La prima tratta i principali approcci «classici» allo studio delle tendenze antidemocratiche, la seconda delinea i loro principali sviluppi e la terza presenta gli approcci attualmente piú accreditati e le linee di indagine che al momento paiono le piú promettenti. Segue una ricca appendice, che presenta i piú rappresentativi strumenti di rilevazione delle tendenze antidemocratiche disponibili.

“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre”.

Primo Levi analizza il sistema del campo di concentramento come esercizio del potere assoluto e le dinamiche del comportamento dell’uomo come individuo, e in relazione agli altri, che la vita del Lager mette a nudo. Tra memoria e testimonianza, l’autore trova risposte fondamentali per l’analisi storica del Novecento e la costruzione di un’antropologia dell’uomo contemporaneo. Quali sono le strutture gerarchiche su cui si fonda un sistema autoritario? Quali sono le tecniche per annientare la personalità di un individuo? Quali rapporti legano oppressori e oppressi? Come nasce la “zona grigia” della collaborazione? “I sommersi e i salvati” nasce dal bisogno di tornare a quell’abisso del proprio vissuto per “conoscere la specie umana” e “difendere la propria anima”, perché ciascuno di noi ha la potenziale capacità di “costruire una mole immensa di dolore”. Fondamentale è il capitolo “La zona grigia”, che affronta il complesso problema del confine tra torturatori e torturati, la zona del compromesso, della collaborazione, del privilegio guadagnato con l’abiezione. Da testimone, l’autore ricorda che, nella lotta disperata per la sopravvivenza, nell’inferno del Lager, il punto più basso è raggiunto dai “corvi del crematorio”, gli ebrei delle Squadre Speciali ridotti a mettere nel forno gli ebrei.

Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto.

Don Lorenzo Milani

Il 15 febbraio del 1966 si concluse a Roma un processo destinato a segnare la storia politica e culturale del nostro paese. In quel giorno, infatti, don Lorenzo Milani venne processato per il reato di apologia e incitamento alla diserzione e alla disobbedienza civile.
La colpa del priore di Barbiana era quella di aver scritto la Lettera ai cappellani militari in cui aveva difeso l’obiezione di coscienza al servizio militare e il dovere della disobbedienza a ordini sbagliati. Nel pieno della guerra fredda, questa provocazione doveva essere punita in modo esemplare.
Don Lorenzo, già gravemente malato, si difese con una Lettera ai giudici poi pubblicata in L’obbedienza non è più una virtù, uno dei testi antesignani del ’68 italiano. Assolto in primo grado, il priore di Barbiana fu condannato nel processo di appello, tenutosi nell’ottobre del 1967, ma la pena fu estinta per la morte del ‘reo’ avvenuta il 26 giugno dello stesso anno. Disobbediente alla sua famiglia, alla Chiesa e allo Stato in nome di un’obbedienza a Dio e ai poveri, questa condanna conferisce, mezzo secolo dopo la sua morte, dolore e stupore alla vera storia di don Milani, vissuto, come ha scritto Mario Luzi, «nel fuoco della controversia».
Seguendo il filo della vicenda processuale, il libro ricostruisce il clima di quegli anni cruciali, i dibattiti e le polemiche intorno al Concilio Vaticano II, il ruolo e il peso di personalità straordinarie come il teologo del dissenso Ernesto Balducci, il ‘sindaco-santo’ Giorgio La Pira e il cardinale di Firenze Ermenegildo Florit. E soprattutto ricorda a tutti noi la grande lezione di don Milani: non esiste obbedienza vera, profonda, non formale, senza disobbedienza come processo critico di assunzione di responsabilità.

...Persuasione

La manipolazione non è certo una novità, è sempre esistita: nel quotidiano, nella politica, nello spettacolo. Già Platone spiegava come ci fossero due tipi di discorsi: quelli che hanno come obiettivo la conoscenza e una comunicazione autentica e quelli che invece, usati ad arte, mirano a ottenere un beneficio esteriore. I primi rispettano l’interlocutore, la sua autonomia e libertà, i secondi cercano di convincerlo con sofismi, trucchi e menzogne ben congeniate. Ma perché riprendere oggi una tematica tanto antica? C’è qualcosa di nuovo rispetto al passato?

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